Acqua
di Claudia Zerbinati
L’acqua, fin dalle civiltà di Egizi e Sumeri, viene
considerata principio creatore di tutte le cose.
I rituali religiosi assegnano immediatamente una
forte componente simbolica a questo elemento, che permarrà anche in ambito
cristiano.
Le persone benestanti avevano al loro servizio
servi cui era affidato il compito di versare l'acqua sulle loro mani, oltre che
su altre parti del corpo. Ben presto si consolida l’uso di “profumare” queste
acque.
Ad oggi sono giunte a noi preziose suppellettili
destinate all’uso dell’acqua sia in ambito religioso che domestico.
Mantova, Palazzo Te, Collezione Egizia G.
Acerbi, Versatoio e Catino, III millennio a.C.
La curiosa forma curva del versatoio
bronzeo, risalente alla fine dell’Antico Regno, esposto alla Collezione Egizia
Giuseppe Acerbi a Palazzo Te di Mantova, suggerisce che questo oggetto dal
profilo semplice ed elegante potesse anche assolvere alla funzione di attingitoio,
come dimostrerebbe la copertura della prima parte del canale per adibirlo a
manico dell’utensile; non meno sorprendente è l’armoniosa forma svasata del
catino ricavata da un’unica lamina.
Oltre che in funzione igienica per purificare il corpo, l’acqua viene
utilizzata anche come vero e proprio cosmetico: acque ed oli profumati venivano
ottenuti con lenti procedimenti artigianali di macerazione ed estrazione
dell’essenza da piante aromatiche, legni e resine.
Su di una tavoletta redatta a caratteri cuneiformi, datata attorno al
1200 a.C, appare il nome di quello che è stato definito il primo chimico della
storia di cui si abbia prova certa: Tapputi-Belatekallim. Si trattava di
una donna babilonese, sovrintendente al Palazzo Reale, cui era stato affidato
il compito di ricercatrice: ella sperimentò la distillazione di fiori (olio e
calamo aromatico, cyperus , mirra e balsamo) che filtrava e ridistillava per più volte.
Raccogliendo l’eredità orientale e quella ellenistica, i Romani
continuano ad associare le acque profumate tanto alla sfera sacra quanto a
quella profana e conviviale. Durante le rappresentazioni teatrali ed
anfiteatrali, oltre al velarium, teso sugli spettatori per ripararli dal sole, era
previsto un impianto idrico collegato ad un bacino per la raccolta delle acque,
che serviva a spruzzare getti d'acqua odorose sia per proteggerli dalla calura
estiva, sia per attenuare possibili odori sgradevoli. Sono Lucrezio e Plinio a descriverci
le sparsiones, vale a dire queste tecniche raffinate in uso nei teatri
romani a beneficio tanto degli attori quanto del pubblico. A Pompei tali gocce
di acque odorose e di polveri aromatiche sembra fossero a base di rosso croco e
di profumo di rosa. Le acque profumate (per lo più insieme a petali di rosa e
viole) erano spesso utilizzate per profumare le sale dei banchetti ed i
commensali.
Roma, Casa della Farnesina, fanciulla che versa
il profumo in un’ampolla (I secolo a.C.)
In Occidente, a partire dal V
secolo d.C., dopo la caduta dell’Impero Romano e con l’inizio delle invasioni
barbariche, parte delle conoscenze scientifiche acquisite nei secoli precedenti
vanno perse; tuttavia, grazie ai fitti scambi commerciali con l’Oriente, la
storia dell’acqua profumata continua anche durante i secoli bui del primo
Medioevo. L’incenso continua ad essere usato anche al di fuori dei riti sacri
legati al cattolicesimo, e gli aromi sono scambiati come doni preziosi tra
potenti. Sebbene il metodo d’utilizzo dell’alambicco (apparecchio per la
distillazione) fosse conosciuto sin dall’antichità, una delle sue prime
descrizioni appare ne “Il libro del profumo e della distillazione” scritto
dal chimico arabo Al-Kindi (Alkindus). Questo manuale
contiene oltre un centinaio di ricette per la preparazione degli oli, dei
balsami e delle acque profumate. Sarà successivamente il filosofo, scrittore e
chimico iraniano Ibn Sina (Avicenna) a reintrodurre
il processo di estrazione dell’olio dai fiori tramite la distillazione. Avicenna incominciò tale processo
di estrazione a partire dalle rose; la sua creazione – l’acqua di rose –
divenne estremamente popolare, essendo più delicata e più facile da usare
rispetto ai miscugli pesanti di olii ed erbe ed ai petali macinati.
Come conseguenza delle Crociate, rifiorisce il
commercio di profumi da Oriente ad Occidente e la distribuzione di merci
preziose in Europa passa soprattutto da Venezia. Fiori, piante aromatiche ed
oli essenziali venivano usati per profumare sia l’acqua per il bagno che quella
per lavarsi le mani prima di un banchetto. In particolare, nelle sale da convivio
si preparavano bacinelle d’acqua in cui si aggiungevano petali di rosa e di
viola, oppure si infondevano salvia, camomilla o rosmarino.
Scorriamo il Liber magne nobilissime et notabilissime curie, un
documento redatto da un ignoto notaio in 18 fogli, attinente il quadruplice
matrimonio Gonzaga (Luigi I Gonzaga e Giovanna Novella Malaspina, il figlio
Corrado Gonzaga con Margherita Beccaria, e due nipoti dello stesso Luigi, Ugolino
con Verde della Scala – sorella di Mastino II e Tommasina con Azzo da
Correggio) avvenuto il 2 febbraio 1340 a Mantova, in occasione delle quali ben
11 Gonzaga vennero nominati cavalieri, per scoprire i doni nuziali. Oltre a
cavalli ed abiti, ricorrente è il vasellame: sette i bronzini d’argento,
ovvero gli acquamanili o brocche, solitamente appaiati ai bacini perché
impiegati nell’importante momento del lavacro delle mani che precede il pasto e
ne intervalla le portate, la cui grande valenza simbolica è sottolineata
dall’impiego di metalli nobili o materiali pregiati come il cristallo. Essi vengono
offerti ai Gonzaga, allora neo Capitani del popolo, dai fiduciari, cancellieri
ed ufficiali del Comune ed il notaio ne riporta il peso, il costo e la provenienza.
Già dal 1221 a Firenze i frati domenicani della
farmacia conventuale di Santa Maria Novella, nella convinzione che i profumi
possano contrastare efficacemente il diffondersi di peste e sifilide, si
dedicano anche all’arte cosmetica. La prima evidenza di produzione delle acque
profumate risale al 1381 con l’Acqua di rose, venduta inizialmente come
disinfettante e la famosissima aqua di gilio.
Firenze, Via
della Scala 16, Antica Spezieria di S. M. Novella,
Sagrestia
dell’ex Cappella di San Niccolò, Passione di Cristo di Mariotto di Nardo di
Cione, XV secolo
L’Officina di Santa Maria Novella è la farmacia
storica più antica d'Europa ed uno degli esercizi commerciali più antichi in
assoluto: una delle stanze di maggior pregio dell'intero complesso
architettonico, è la Sagrestia, conosciuta anche come "Stanza delle
Acque", per essere stata fin dal XVII secolo il luogo in cui si
conservavano le acque distillate. I frati coltivavano le piante medicamentose (i semplici,
da cui deriva il nome del giardino dei Semplici) in un orto attiguo, distillavano erbe e fiori, preparavano
essenze, elisir, pomate, balsami. Il giardino dei
semplici riforniva principalmente la più vicina e gemella Farmacia di San Marco anch'essa fondata e gestita
dai frati domenicani
Le decadi della peste nera furono
particolarmente dure per le popolazioni afflitte: fu per questo motivo che i
frati domenicani distillarono come detto l'Acqua di Rose, acqua che al tempo
veniva utilizzata sia per sanificare gli ambienti che per la cura della
persona, assumendola anche insieme al vino o in pillole. Quando, nel 1533, una
giovanissima Caterina de’ Medici lascia Firenze per andare in sposa al futuro
re di Francia, vuole nel suo seguito – fra paggi, guardie e dame - anche un
profumiere. Si chiamava Renato Bianco, ed a Parigi divenne tanto famoso da
aprire una bottega di profumiere nella centralissima Pont Saint Michel per
la ricca aristocrazia, con il nome di René le Florentin. Si racconta che le
camere della regina ed il laboratorio del fiorentino - altrettanto abile nella
preparazione dei veleni - fossero connessi da un corridoio segreto; tutti
questi stratagemmi erano volti ad evitare qualunque rischio d’uscita dal
palazzo di quelle preziose ricette, come l’acqua profumata a base di essenze di
agrumi con una predominanza di bergamotto di Calabria.
Si narra che così sia nata l'Acqua di Santa Maria Novella o Acqua della
Regina. Originariamente chiamata "acqua antisterica", questa
specialità di Santa Maria Novella è una particolare miscela di principi
essenziali di sceltissime piante aromatiche quali la balsamite, la menta e la
cannella di Ceylon, conosciute per le loro proprietà benefiche e rinfrescanti.
La formula originale fu rielaborata nel 1614 dal frate Angiolo Marchissi.
Nel XIV secolo la
scienza del profumo e l’arte della preparazione del profumo, con l’espansione
dell’Islam penetra anche in Europa e si producono le acque profumate, come l’acqua damaschina, a base delle aulentissime
rose damascene.
Nella decima novella
dell’ottava giornata del “Decamerone”, Boccaccio immagina gli incontri
amorosi preceduti da bagni profumati: “E tratti dal paniere oricanni
d’ariento bellissimi e pieni qual d’acqua rosa, qual d’acqua di fior
d’aranci, qual d’acqua di fiori di gelsomino e qual d’acqua nanfa, tutti
costoro di queste acque spruzzano”.
Nanfa (o lanfa)
dall’arabo nafḥa (odore, profumo) è l’acqua profumata estratta
per distillazione dai fiori di arancio (se le arance erano amare il profumo era
più intenso): da 1000 chili di fiori recisi a mano si ricavava 1 litro di
quell’essenza denominata neroli, a partire dal ‘700, dal nome del feudo del
marito della nobile Marie Anne de La Trèmoille, principessa Orsini, che
cospargeva del profumo delle zagare tutti i suoi oggetti.
Uno dei primi profumi
moderni è stato creato nel 1370, su richiesta di Elisabetta, regina
d’Ungheria, ma l’acqua della regina d’Ungheria, miscuglio di essenze di
rosmarino, macerate nell’alcool, si è rivelato anche un rimedio eccezionale per
i reumatismi.
“A ffare odore: tò buona
acqua rosa e mòllatene le mani, di poi togli del fior di spigo e
fregatelo fra l’una mano e l’altra, ed è buono”. Si tratta
della ricetta del profumo di rose, scritta da
Leonardo, ben celata tra le righe del Codice Atlantico, un profumo di
rose e lavanda, che secondo lui dovevano essere sciolte insieme in un solo
gesto con mano sapiente. Sappiamo che Leonardo utilizzava molto i petali
dei fiori ma anche macinare tra loro i gambi delle piccole piante che
riteneva potessero dare la profumazione e tra queste troviamo i fiori di
arancio amaro, il gelsomino bianco e la lavanda.
Caterina Sforza, signora di Forlì, dotata di
grande personalità e bellezza, studiosa di farmacia, di medicina, di chimica e profumeria, mette per iscritto le 454 ricette dei suoi
“experimenti”, sessanta delle quali sono relative ai cosmetici usati per
“lisciarsi”, cioè per curare l'estetica del volto, della pelle e dei
capelli. Una di queste viene ripresa da Giovan Ventura Rosetti nel suo
libro sull'arte dei profumi, pubblicato a Venezia nel 1555, quando ci parla di
“un'acqua mirabile per donna”, ottima per lavare il viso, le mani e
tutta la persona, da usare due o tre volte la settimana, poiché “fa la carne
giovinetta, et mantiene in sanità chi se laverà con quest'acqua”. Si tenga
conto che nel corso del Rinascimento, con l'introduzione dei profumi a base
alcolica, come l'acqua di rose o di altri fiori, si potevano avere a disposizione
degli efficaci antisettici, da utilizzare anche nei casi in cui occorreva
disperdere gli odori corporali sgradevoli, considerati potenzialmente nocivi.
Inoltre, può essere utile ricordare che, opportunamente diluite, queste ed
altre acque servivano per profumare persino grandi ambienti: a Ferrara, per
esempio, il duca Ercole I d'Este
nel 1499 aveva fatto profumare la Sala Grande
del palazzo Ducale dopo la rappresentazione de l'Eunuchus di Terenzio, seguita
da centinaia di persone. In molti casi le acque profumate erano preferite al
sapone (a volte troppo alcalino o troppo caustico). Erano diversi in epoca
estense gli ambienti deputati al piacere e alla salute del corpo, basti pensare
ai bagni realizzati nella seconda metà del XV secolo per volere di Ercole I
d'Este presso il Castello e nelle adiacenze del Giardino del Duca, detto poi
delle Duchesse; quello vicino al giardino era dotato di stufa per scaldare
l'acqua, poiché, come affermava il cronista del Quattrocento Ugo Caleffini, al Duca
piaceva “bagnarsi” spesso. Se, in generale, l'acqua proveniva dal Po attraverso
un complesso sistema idraulico, cui aveva lavorato pure Biagio Rossetti, da
alcuni documenti d'archivio si evince che nel 1493 venivano portate nel palazzo
Ducale di Ferrara (per i bagni di Ercole) diverse botti di acque termali e
fanghi provenienti dal padovano, in particolare da Abano e da San Bartolomeo
nei Colli Euganei.
Isabella d’Este chiedeva spesso ai suoi agenti di
procurarle le acque odorose e tale uso probabilmente non si limitava al momento
del banchetto ma era esteso all’aspersione degli ambienti di Corte per renderne
maggiormente tollerabili gli odori. Ordina “Voressimo che vedesti se in
Venetia se ritrovasse acqua de rose damaschine che fusse bona, et ci mandaste
per il primo burchio sei zucchette” ed ancora ad un altro ambasciatore “Siate
contento di far opera per farni havere una zucca di bona grandezza d’acqua
nanfa, et un’altra di acque di rose damaschine buona”, lamentando poi insofferente
“Siamo stata questi dì in expettatione delle acque di rose damaschine et
nanfa…et ci meravigliamo che non sia a quest’hora comparso niente” ed il
poveretto le rispondeva “Dico che questi profumieri non sanno che sia acqua
damaschina; e però io ne ho fatto comprare di tre sorte, acciò che la veda se
gli è cosa che la contenta”. Per placare i capricci di Isabella e
solleticare il suo edonismo le vien scritto da Roma “Ho combatuto cum quanti
perfumeri ha questa città et cum quante Signore ce sono, cusì Spagnole como
Italiane, che V.Ex. fa et adopera la piu excellente misura et compositione si
trovi al mondo”. Come si può notare, Isabella d'Este, che definiva sé
stessa “prima perfumera del mondo”, aveva un rinomato laboratorio di
profumeria, dove componeva personalmente varie miscele su una base di acqua di
rose (come la rosa damascena o la rosa rossa di maggio), oppure a base di acqua
nanfa di fiori di arancio. A queste acque, Isabella aggiungeva i più diversi
ingredienti provenienti dalle nostre zone e dai giardini rinascimentali come la
menta o la maggiorana, insieme ad altri componenti decisamente esotici come
l'ambra, il muschio indonesiano, il balsamo egiziano, l'incenso arabo e l'aloe
indiano.
Una serie di lettere risalenti al 1530 tratta della
commissione di alcuni pezzi di argenteria realizzati a Roma, su disegni di
Giulio Romano, per conto del cardinale Ercole Gonzaga e del fratello Ferrante
Gonzaga, entrambi figli della marchesa Isabella, allora residenti rispettivamente
a Mantova ed in Sicilia. Questo materiale documentario rivela la
complessità del mecenatismo a distanza e sottolinea l'importanza del ruolo
svolto dagli agenti diplomatici che fungono da intermediari
artistici. Questi ultimi erano tenuti a negoziare le molteplici esigenze
funzionali e rappresentative dei loro committenti ed a curare gli aspetti
pratici della commissione, assicurandosi che gli orafi fossero onesti e fedeli
alle invenzioni grafiche di Giulio, e che gli oggetti corrispondessero alle
aspettative dei loro committenti.
Oxford, disegno di Giulio Romano per Brocca a
forma di delfino
Nel fastoso e monumentale servizio da “credenza” del
cardinale Alessandro Farnese, prodotto a Castelli d’Abruzzo nel terzo quarto
del ‘500, troviamo due splendidi rinfrescatoi a navicella, oggi conservati
all’Ermitage ed al Museo Internazionale della ceramica a Faenza, capi d’opera
unici al mondo. Questi oggetti erano atti a contenere acqua fredda per tenere
in fresco bevande o per raccogliere l'acqua che si versava sulle mani, prima di accedere alla mensa.
Rinfrescatoio a
navicella con mascheroni di Alessandro Farnese, XVI sec.
Come ci narra Gabriele Bertazzolo nella sua “Breve
relazione dello sposalizio fatto dalla Serenissima Principessa Eleonora Gonzaga
con la Sacra Cesarea Maestà di Ferdinando II Imperatore”, la coppia tornando
al Palazzo dopo la cerimonia avvenuta ad Innsbruck il 2 febbraio 1622, si ferma
nella Sala grande per il banchetto, apparata oltre che con figure di zucchero –
argomento approfondito nell’articolo precedente - davanti al piatto dell'Imperatore, con due macchine:
una rappresenta una prospettiva di un giardino, l'altra una montagna con
piante, frutti e animali, da cui scaturiscono due fontane di acqua profumata.
Nel 1647 ci viene descritta la cena fatta tra il
Duca Alessandro della Mirandola nel passaggio che fece la Duchessa di Mantova Caterina
de’ Medici, in cui “fu servita Sua Altezza con salvietta bagnata in acqua di
gelsomino”, con tanto di ricetta.
Dunque nei convivi italiani rinascimentali le
acque nanfe, di rose, di limoni, di mirto e di muschio stazionano accanto alle
tavole o sono servite in baccine d’argento, affinché i commensali
possano servirsene ogniqualvolta lo desiderino. Nel 1601 il protonotario scrive
al Duca Vincenzo Gonzaga di avergli inviato da Genova “una cassetta di
quattro fraschi di acqua di cedro” precisando “et perché nissuno la
tocchi o la alteri in camino, mando la chiave di essa a Vostra Signoria
illustrissima con questa mia”.
Raccontano le cronache che a Reggio Emilia, sin
dal 1412, quando un editto del Consiglio degli Anziani ne autorizza la vendita
“dentro le mura” - sulla piazza maggiore - si diffuse l’uso dell’acqua d’orcio,
bevanda aromatizzata alla liquirizia e anice che veniva versata, così si dice,
nelle botteghe del centro come servizio per i clienti nelle giornate torride.
Probabile è la derivazione toscana, terra con la quale Reggio aveva fin dal
Medioevo importanti contatti commerciali: l’usanza appresa dai mercanti toscani
prevedeva di accattivarsi la clientela offrendo nel proprio negozio, gratis,
acqua nella quale erano posti in infusione erbe, contenuta in un orcio, da lì
acqua d’orcio o d’orzo. Presto si capì che la bevanda migliore era ottenuta con
l’infusione di liquirizia che procurava effetti rinfrescanti e tonici.
Poi non mancano le acque miracolose, per cui
essendo Francesco caduto malato nell’agosto del 1605, suo padre Vincenzo
Gonzaga si fa inviare da Assisi in piena notte “il corriero con cert’acqua
di un pozzo miracoloso per la febre del serenissimo principe nostro signore”.
Una volta ristabilitosi, il giovane invia alla madre Eleonora De’ Medici da
Maderno “dei frutti, ma dei fiori non gliene mando se non pochi, perché non
se ne può haver quantità, ond’ella non potrà farne far l’acqua come era suo
desiderio”.
Non mancano acque segrete alchemiche, come “l’acqua
forte che solve l’oro et l’argento”, precisando che “quale havuta che
sia vera la manderò a vostra altezza”.
Tra le acque salutifere quella di cui scrive a
Vincenzo Gonzaga nel 1610 il Duca di Modena Cesare D’Este, “soggiungendomi
che lo stomaco di vostra altezza, per esser grandemente offeso da fredda
intemperanza, produce nei budelli effetti ventosi”; Vincenzo Gonzaga
sguinzaglia così per procurarsi tale acqua di Carfignana (Garfagnana) Giovan
Battista Acquistapace, che lo rassicura su come si dovrà “adoperare ogni
dovuta diligenza acciochè sia condotta fedelmente et ben conditionata et
l’istesso sarà eseguito nel levarla d’il proprio fonte”.
Che l’acqua potesse essere pericolosa lo attesta una missiva inviata al
Duca Vincenzo Gonzaga sul finire del Cinquecento dalla corte cesarea di Praga,
riferendo di un episodio occorso all’imperatore Rodolfo II D’Asburgo: “….quattro
giorni sono, intorno a far pruova di certi fuochi artificiali et avendo in mano
un’ampolla d’acqua di vita, ne cadde un poco sopra della polvere ch’era dinanzi
alla maestà sua et essendo acqua di vita eccellentissima subito s’accese il
fuogo in quella polvere che andò alla volta della faccia di sua maestà, et vi
fu grandissimo pericolo delli occhi et di guastarsi tutta la faccia, però per
gratia di Dio non vi fu altro male che un poco di strinamento di barba et cigli
et offesa la pelle del volto in due luoghi, sì che se ne sta ritirata”.
Si narra che sul finire del secolo il venditore
ambulante Giovanni Paolo Feminis abbia inventato l’Aqua Mirabilis, una bevanda capace di guarire tutti i mali. Trasferitosi a Colonia,
iniziò a produrre e commerciare questa rinomata acqua profumata a base di oltre
20 essenze differenti: la base essenziale è il bergamotto, cui si aggiungono quella di limone, arancia, mandarino, limetta, cedro e pompelmo, inoltre può contenere olio di lavanda, neroli, rosmarino, timo, petitgrain, olio di gelsomino ed issopo. All'Aqua mirabilis venne dato il nome di Eau de
Cologne quando le truppe francesi nel 1800 entrarono in Colonia dagli
ufficiali, che stimavano molto quest'acqua profumata usandola come tonico e
profumo.
Nel 1900 poi, in occasione di un'esposizione organizzata dalla città
di Colonia, artisti come Klee, Macke e Kandinskij disegnarono
alcuni progetti per una nuova linea di confezioni ed al termine della rassegna
vennero scelti i disegni di Kandinskij.
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